ALESSANDRO SERRA
“LA TEMPESTA”, O DEL POTERE DEL PERDONO

Intervista ad Alessandro Serra – Teatropersona
a cura di Alcantara Teatro

Per realizzare “La tempesta” (2015) – spettacolo in cui la narrazione è scandita dal rapporto fra immagine, luce, musica e movimento corale – Alessandro Serra ha collaborato un anno con Alcantara e con il Laboratorio psicosociale, nella modalità ‘intermittente’ del workshop intensivo, tra training e improvvisazioni. Ogni incontro lasciava spunti e temi di lavoro, rilanciati dal gruppo.

Alessandro Serra, co-fondatore e regista di Teatropersona, si avvicina al teatro attraverso gli esercizi di trascrizione per la scena delle opere cinematografiche di Ingmar Bergman. Si forma come attore a partire dallo studio delle azioni fisiche e dei canti vibratori nel solco della tradizione di Grotowski per poi arrivare alle leggi oggettive del movimento di scena trascritte da Mejercho’ld e Decroux. Integra la sua formazione teatrale con le arti marziali che pratica sin da giovanissimo. Nel frattempo si laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo all’Università la Sapienza di Roma con una tesi sulla drammaturgia dell’immagine. Fondamentale, negli ultimi anni di formazione, l’incontro con Yves Lebreton e il suo metodo del Teatro Corporeo.
Nel 1999 fonda la Compagnia Teatropersona, con la quale comincia a mettere in scena le proprie opere che scrive e dirige, curandone scene, luci e costumi.
Tra il 2006 e il 2011 il lavoro di ricerca sulla scena come puro fatto materico si concretizza in una “trilogia del silenzio” (composta dagli spettacoli Beckett Box, Trattato dei Manichini e AUREE), in cui la drammaturgia è praticata quale vero e proprio espianto di aure dalle opere letterarie di Samuel Beckett, Bruno Schulz e Marcel Proust.
Nel 2009 crea la sua prima opera per l’infanzia, Il Principe Mezzanotte, presentato in oltre duecento repliche in Italia e all’estero.
Nel 2013 crea Il Grande Viaggio opera tout public sul tema dell’immigrazione.
Nel 2015 la sua ricerca teatrale si accosta al linguaggio della danza e con il sostegno della fondazione Giacometti di Stampa (CH) crea L’ombra della sera, dedicato alla vita e alle opere di Alberto Giacometti.
Nello stesso anno, in collaborazione con gli attori della compagnia Accademia Arte della diversità di Bolzano crea H+G.
Nel 2017 ritorna al teatro di prosa e crea MACBETTU inspirato all’opera di Shakespeare e recitato in lingua sarda.
Con Teatropersona ha portato in tournée i propri spettacoli in Italia, Francia, Svizzera, Corea, Russia, Spagna, Bulgaria, Polonia, Germania.

 

quali sono i maestri che porti con te?
Non conosco maestri nell’occidente teatrale. Trovo piuttosto bizzarro che superata una certa età si debba definire maestro qualsiasi attore o regista più o meno noto. Come fosse un fatto anagrafico.
Mi verrebbe da citare i nomi di artisti che ho amato profondamente, Kantor ad esempio. Ma Kantor non era un maestro, era un’artista.
Dai maestri si apprende una via, dagli artisti si rubano le indicazioni per raggiungerla. Non ho mai avuto un maestro, mi sono sempre accontentato di prodigiose supplenze, come definiva Cristina Campo le sostituzioni concesse in quest’epoca di progresso puramente orizzontale.

Per restare in ambito squisitamente teatrale diciamo che ho saccheggiato e profanato le opere e il pensiero di artisti come Kantor, Bergman, Tarkovskij, Peter Brook. Anche se in quest’ultimo caso il pensiero è talmente lucido e privo di qualsivoglia intento propagandistico da sfiorare la maestria. Leggere Zeami è ascoltare un maestro. Grotowski è immenso e non smetto mai di leggerlo. Qualcuno lo considera un maestro ma mi pare del tutto evidente che molti dei suoi allievi lo abbiano frainteso piuttosto che tradito. Se lo avessero tradito allora si, forse ci sarebbe stata una vera discendenza. Grotowski è stato un artista straordinario oltre che un essere dotato di un’immensa intelligenza e profondità spirituale. Il suo pensiero sull’arte e sull’attore restano un patrimonio di inestimabile bellezza. È tutto scritto, semplice, essenziale, inequivocabile. L’attore a cui pensava Grotowski è forse davvero un attore disabile. Nel solco della sua tradizione si è creduto di dover andare in scena ostentando canti, risuonatori vocali, acrobatiche contortosi del corpo, cosa che peraltro il Grotowski artista non ha mai fatto. Il Training è una possibile via per liberarsi non per coprirsi di apparati scenici. Il teatro povero è si povero di mezzi espressivi (come le scene, le luci ecc.) ma non si creda che essi debbano esse sostituiti da apparati attoriali. La via negativa di cui parlava Grotowski è quella che conduce alla totale trasparenza del corpo dell’attore, affinché egli mostri la ferita segreta, l’anima e non le abilità. C’è un’arte preposta all’acquisizione di abilità e alla conseguente esibizione pubblica delle medesime, è un’arte magnifica e antichissima, si chiama circo, non teatro.
Grotowski parla del coraggio di essere vulnerabile, il coraggio di rivelarsi. Un attore disabile parte da qui, o perlomeno questo è ciò che ho avuto modo di vedere nelle due esperienze con voi e con gli attori dell’Accademia Arte della Diversità di Antonio Viganò.

 

com’è nato il tuo rapporto con il mondo della diversità?
Mia madre lavorava in un centro per discinetici, una sorta di clinica sul mare in cui convivevano persone chiamate spastici, mongoloidi, matti…
Ricordo questa enorme terrazza sul mare con persone sdraiate in terra, o sedute in carrozzina, altre che vagavano ininterrottamente. Io andavo al mare lì. Ho assistito a compleanni, feste, addirittura a un matrimonio. Giovanna, giovane, bellissima, con dei capelli lisci, lunghissimi, più lunghi del suo corpo senza gambe.
C’è stato forse un maestro per me, a modo suo, lo è ancora, vive da oltre 50 anni su una sedia a rotelle.

 

esiste un metodo che usi per sviluppare il lavoro dal testo alla messa in scena? ad esempio, che metodo hai usato per “la Tempesta”?
I testi vanno letti e dimenticati. Poi ci si torna e li si disseziona, spesso non ne esce fuori niente (come in molti autori del 900 e in altri contemporanei) altre volte come in rari autori contemporanei e come sempre in autori come Shakespeare e Cechov vi si trova la vita distillata. Quella vera, non quella che ci farebbe comodo considerare tale.
Quando ho la fortuna di lavorare con e su dei testi come la tempesta il fatto di dis-creare l’opera e immergersi nella materia con tutti i rischi del caso è certamente una esperienza artistica entusiasmante ma è soprattutto una pratica di natura spirituale.
Dissezionare l’opera, e con cura e rispetto espiantarne gli organi: gli oggetti, le azioni, le fonti luminose o le indicazioni luminose (se si legge attentamente Cechov si sa sempre quale luce illumina la scena).
Individuare le parole radianti che in Shakespeare sono sempre presenti per aiutarci ad assegnare un nome all’immagine che sta dietro al testo.
La Tempesta è l’opera del perdono, o meglio della libertà di scegliere di non vendicarsi e di perdonare.
Proprio nel momento in cui Prospero ha la forza e il potere per farlo oltre che la vittima sotto mano chiude i suoi libri di magia e perdona.
Occorre stare attenti a non confondere il presunto tema di un’opera con la sua vera immagine. Questo perché il più delle volte quello che crediamo essere il tema di un’opera è in realtà il suo cliché, in taluni casi il contrario della sua vera immagine. E così rischiamo di pensare a un Amleto dubbioso, un Macbeth smidollato vittima della moglie, un Otello geloso mentre il vero geloso, si sa, è Jago. O pensare a Lear come un vecchio rimbambito che cede il regno alle figlie. In questi giorni in cui studio il Lear emergono le parole radianti… cecità, vecchiaia. Imparare a vedere imparare a invecchiare.
A proposito di Lear e a proposito della domanda precedente. Non si eredita che dai morti, per questo Lear fallisce, perché pretende di lasciare la sua eredità da vivo. Finisce male, si sa, ma c’è comunque una speranza. Lear impara a morire. È il viaggio iniziatico di un vecchio. Ma è anche una metafora di come il maestro vada ucciso e non idealizzato. Gli allievi uccidono, gli epigoni imitano.
Tornando all’opera del perdono, insieme agli attori, a Damiano e Anna mi sono occupato dell’aspetto più divertente della scrittura di scena: la dissezione e il gioco con la materia. Il lavoro sporco l’ha poi fatto Damiano.

 

che importanza hanno nel tuo lavoro le parole, il movimento, gli oggetti e le luci?
Dire e non recitare, questa per me è la parola in teatro. A proposito di Maestri, Yves Lebreton mi ha sempre detto: “Io non ho nulla contro la parola, se è necessaria si usa, ma deve essere necessaria”. Ecco basta chiedersi: è necessaria?
Dopo quasi cinque anni di voto del silenzio oggi cerco la vitalità della lingua parlata. O almeno ci provo. Il resto è letteratura, poesia, cronaca.
H+G inizia al buio, Rodrigo dice “C’era una volta un povero taglialegna che abitava davanti a un bosco con sua moglie e i suoi due bambini”. Per dirlo a volte ci impiega un minuto. Ma non recita, lo dice!
Quando Hansel e Gretel si perdono nel bosco e gridano “dove sei?” lo fanno in una specie di tedesco che è la lingua madre di Miki e Marika ed è per me straziante, sempre. Se lo facessero in Italiano sarebbe meno forte, per questo quando la drammaturgia me lo ha consentito ho lasciato che recitassero nella loro lingua.
Con Shakespeare gli attori sono di fronte a un problema analogo: recitare in una lingua che non è la loro e più ci si sforza di riprodurre il suono di quel determinato verso, più si peggiora la situazione. Gli stessi attori shakespeariani spesso risultano dei tromboni. Quando recitano a bassa voce a volte riescono a entrare in intimità col verso ma come accennano ad alzare la voce diventano insopportabilmente falsi.
Il corpo viene prima della voce, se la voce non è nel corpo non veicola emozioni ma solo concetti. La stessa scrittura di scena deve attraversare i corpi degli attori altrimenti è recita.
Amo molto gli oggetti ma sto imparando ad utilizzarne sempre meno. Certi oggetti hanno un potere evocativo troppo forte e molto spesso i corpi degli attori ne subiscono la forza. Gli oggetti raccontano, emettono luce. Il lavoro consiste nel trasformarli in elementi evocativi. Un cactus di plastica può evocare il deserto, è un gioco convenzionale antico come il teatro, sta all’attore non rompere l’incanto.
Per questo sin dai primi giorni di prove utilizzo gli oggetti, che do letteralmente in pasto agli attori.
Cerchiamo la dimestichezza nella speranza che prima o poi, magari anche solo per un attimo, si verifichi ancora la magia di Kantor della totale fusione tra attore e materia: il bio-oggetto
Le luci sono pericolose e per chi come me ne subisce il fascino il rischio di leziosità è dietro l’angolo.
E forse proprio perché amo la luce e amo la fotografia che mi impongo di usare pochissimi elementi, pochi proiettori e pochissimi sagomatori e quasi sempre un solo filtro convertitore che mi consenta di giocare con due temperature: la luce calda della lampada a incandescenza e quella freddata da un filtro di conversione.
Per intenderci, i crepuscoli di Magritte.
quali sono per te gli elementi essenziali per arrivare all’emozione?
Il coraggio di mostrare la propria fragilità, la propria ferita segreta. Mio compito è proteggere l’attore e metterlo in condizione di potersi donare. La forma deve essere al servizio di questo momento antico come l’uomo in cui due esseri umani si incontrano nel profondo. La forma è l’emozione. Spesso ho fallito, molto spesso, per vari motivi, in primis la mia incapacità cronica a mostrare la mia di fragilità e poi forse per vanità, quando mi illudo di poter creare meraviglie senza l’attore. Ma negli ultimi anni credo di aver fatto qualche piccolo passo in questa direzione e non posso negare che nel mio piccolo questa maggiore consapevolezza sia dovuta in larga parte all’incontro con gli attori del Teatro la ribalta e con voi di Alcantara.

 

quando Alcantara ti ha contattato per portare la tua esperienza all’interno del laboratorio psicosociale, quale è stata la prima reazione?
La stessa che ebbi quando Antonio Viganò mi chiese di lavorare coni suoi attori. No, grazie, non credo di esserne capace. Una risposta che come spesso accade è dettata dall’ignoranza.
Semplicemente non immaginavo neanche che si potesse lavorare professionalmente con degli attori disabili. Quelle rare volte in cui avevo assistito a spettacoli teatrali, anche piuttosto celebri, con in scena attori disabili, sono uscito dal teatro con un doloroso senso di fastidio e disagio, oltre alla netta sensazione che quelle fragilità e quei corpi fossero letteralmente sfruttati. Per questo poi durante il processo creativo di H+G quando si trattava di attingere dalle loro improvvisazioni avevo una insolita sensazione di rigidità. Antonio mi diceva “Usali, non temere” e aveva ragione. C’è una sottile ma determinante differenza fra usare e sfruttare.

 

 

In che modo hai rapportato il tuo lavoro con il gruppo? Come si è creata l’empatia? Cosa ti è rimasto di quell’incontro?
Ho lavorato poco con gli attori di Alcantara anche se in più occasioni il che è stato un bene: riconoscersi e incontrarsi di nuovo. Il mio lavoro con i gruppi è sempre lo stesso siano essi allievi, attori professionisti o disabili. Fatta salva qualche piccola accortezza dovuta appunto alla loro fragilità
e alla mia ruvidità per cui ad esempio abbiamo esplorato il gruppo attraverso un elemento imprescindibile per me: l’ascolto. Per il resto non so se si può parlare di empatia, certo di simpatia.
Sono rimasto molto colpito dai volontari che lavorano nel gruppo, non starò a fare i nomi, sai di chi parlo. Durante il lavoro li osservavo… il tatto con cui si mettevano al servizio dell’altro mi ha profondamente commosso.
Il lavoro con i disabili che cosa ha in più e/o in meno rispetto al lavoro con i cosiddetti “normali”?
L’assoluta mancanza di compiacimento che a tratti sfiora la perdita dell’io. Non so da cosa derivi, forse è semplicemente inconsapevolezza ma sta di fatto che quando agiscono agiscono. In H+G c’è una scena in cui gli attori con una certa azione determinano una forte reazione emotiva di fastidio
nel pubblico. Ebbene gli attori sanno perfettamente che quella determinata azione presto provocherà quella reazione e tuttavia non c’è mai premeditazione, né compiacimento. Agiscono, abitano, danzano momenti di grande commozione e alla fine dello spettacolo, mentre gli spettatori in lacrime li vanno a salutare, sorridono, salutano e nel frattempo ti chiedono sottovoce se dopo cena al ristorante possiamo dividere in due una fetta di torta al cioccolato.
Questa disabilità dell’io è solo dei grandi attori.

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