antonio viganò
dal corpo sociale al corpo poetico

Intervista di Lorella Barlaam.

Nel gennaio 2005 nell’ambito del progetto Fram… menti il Laboratorio Psicosociale Alcantara ha realizzato uno stage con Antonio Viganò, autore, attore e regista, sperimentando la possibilità del teatro come laboratorio di integrazione. Dalla tre giorni di lavoro comune è scaturito lo spettacolo “L’aquilone più alto”.
Antonio Viganò, fondatore nell’83 del teatro la Ribalta a Como, una delle Compagnie storiche del teatro ragazzi, nasce come artista negli anni ’70, tempo di Terzo Teatro e Gruppi di base, nel segno del Teatro povero di Jerzy Grotowski.
La sua formazione passa dalla Scuola del Piccolo Teatro di Milano all’Ecole Jacques Lecoq di Parigi, per aprirsi alla danza sotto la guida di Carolyn Carlson, scoprire una vocazione e incrociare il percorso con Pina Bausch e il Tanztheater Wuppertal. Da cui proviene la danzatrice e coreografa Julie Anne Stanzak, sua attuale collaboratrice e coreografa. Esperienze da cui si sviluppa la ricerca di una forma espressiva nell’intersezione tra teatro e danza, attraverso un’indagine sul corpo e i suoi linguaggi che nel lavoro con la disabilità ha trovato la sua compiuta cifra artistica.
«Il mio lavoro con la disabilità parte da Enzo Toma, da quel suo magistrale “Impronte dell’anima” che gira tutt’ora» spiega Viganò. «Lì ho visto la possibilità di un teatro che non “mostra” soltanto abilità, ma offre sospiri veri di vita, pieni di dolore e di felicità.
In un panorama teatrale in cui la bellezza contava molto, questo spettacolo diceva che bisognava spostare lo sguardo, era altrove che bisognava cercare. Che si poteva costruire un’altra lingua, con regole che non c’erano ancora, una diversa gestualità… e che bisognava moltiplicare le differenze, non addizionarle.
Per me è stato fondamentale anche l’incontro con la compagnia francese di “L’Oiseau Mouche”, formata da attori professionisti che sono tutti ragazzi e ragazze con handicap mentale. Con loro abbiamo realizzato gli spettacoli “Personnages” “Excuse-le” e “No exit”, che hanno dato un nuovo sguardo e un nuovo spessore artistico ai nostri progetti nei luoghi del disagio. Fino all’attuale impegno con la ONLUS Lebenshilfe, con cui abbiamo formato una compagnia in cui lavorano fianco a fianco persone abili e diversamente abili, solo ‘attori’ per noi, e varato il progetto Arte della diversità, laboratori integrati per teatro, danza e canto nel Teatro comunale di Gries, aperto in marzo».

Come si articola il tuo lavoro con la diversità, quale ‘metodo’ segui?
«Il luogo è il laboratorio teatrale, che è anche il metodo per conoscere il mondo mettendo a fuoco gli oggetti e le persone, ma soprattutto le relazioni tra gli oggetti e tra le persone, e sperimentare il mondo attraverso la rappresentazione partecipata e il vissuto rappresentato.
Lo strumento è l’improvvisazione, cioè una sequenza di azioni nel corso della quale il tempo tra lo stimolo e la reazione è minimo. Condizione indispensabile perché ciascuno si accetti e accetti gli altri nella prospettiva di cambiare e cambiarsi, è che i giudizi siano sospesi.»

Cosa ricordi dell’esperienza fatta a Rimini?
«È stato uno stage, un piccolo laboratorio in cui ognuno ha portato una diversità. Ne son venuti fuori alcuni personaggi che mi piacevano, quelli non “imbalsamati”. Trovati attraverso la ricerca comune di un vocabolario coreografico, in rispondenza con una gestualità.
Io lanciavo loro delle proposte e chiedevo se potevano restituirmele, in una danza che mi piaceva, e li ho trovati sempre molto interi, senza meccanismi di fissazione, con una bellissima sincerità nelle forme.
Credo dipendesse anche dal fatto che era la prima esperienza di teatralizzazione del lavoro che facevano, così abbiamo cercato di cogliere in ognuno di loro il racconto che era già inscritto nel corpo, il corpo come soggetto. Si trattava di “scioglierli” non solo di metterli in bella forma, perché l’estetica è un veicolo comunicativo ma non ci importava il bello, quanto la ricerca di una gestualità che esprimesse le intenzioni attraverso il corpo. Loro erano già nelle cose, e c’è stato il passaggio da un corpo sociale a un corpo poetico. Io dico sempre che non è importante come si danza, ma perché si danza», sorride Antonio Viganò. «E a me interessa incontrare delle vite, intendo vite belle, e incontrare quelle vite per essere nel mondo in modo diverso, attraverso altri sguardi».

Come si passa dal laboratorio allo spettacolo, che differenze ci sono?
«Il lavoro in laboratorio è prezioso per esplorare la propria condizione. Ma restare in una condizione non è interessante per il teatro: ci vuole il passaggio a un soggetto narrativo, che deve mostrare qualcosa che ci stupisce, ci spiazza.
Il problema è lo sguardo dell’altro. Perché se c’è un pubblico a guardare, non ci si può negare a una forma sociale di comunicazione, che deve restare nella diversità. Il primo problema per me è trovare una loro verità, per proteggerli da qualsiasi forma di finzione e non metterli in difficoltà. Sono pieno di contraddizioni ma ho una mia pratica e una mia poetica: tornare sempre al corpo, al movimento, alla coreografia.
Il corpo disabile ha una potenza drammaturgica fortissima, non ha bisogno di abitare un personaggio, va sempre in scena per la prima volta. E quello che succede deve essere vero sempre. E’ difficile trovare attori così bravi, già portatori di un racconto nella drammaturgia del corpo.
Perciò si attiva una soglia che pochi riescono a oltrepassare – come Pippo Delbono – perchè espone al rischio di consacrazioni, al rischio di mettere il teatro avanti a tutto, magari teatro fatto benissimo ma con uno sguardo pietistico. Ogni spettacolo deve essere invece lo svelamento di qualcosa, e senza l’incontro non esiste… ai nostri spettacoli gli spettatori vengono con sguardi consolidati ed escono con il dubbio. Mi piace pensare che l’unico che fa terapia è il pubblico.
Ma per passare dalla condizione alla comunicazione ci ho messo quarant’anni».

Mi accennavi al fatto che teatro permette una diversa politica della disabilità…
«La nostra battaglia è adesso un progetto di laboratori aperti a tutti, abili e disabili, di formazione a tutte le arti del teatro, dove passano sguardi che non siano solo consolatori, passano concetti. Una creazione che si avvale del contributo del laboratorio professionalizzate per le Arti e i mestieri della scena – Fondo sociale Europeo – Provincia di Bolzano, in cui gli “allievi” abili e disabili del Corso partecipano alla creazione, alla gestione degli elementi tecnici, alle attività di programmazione e di organizzazione. Il lavoro del teatro così apre anche a una diversa politica nella ‘gestione’ della disabilità. Più interessante rispetto ai ‘laboratori’ di attività più o meno ri-creative che si risolvono in parcheggi per l’utente, hanno un costo elevato e creano maggiore emarginazione. Perché il laboratorio teatrale è un progetto inclusivo, che si fa carico del disabile non per vocazione sociale ma per vocazione artistica. E sempre più serviranno processi di inclusione culturali, che danno più dignità per meno costi, che vanno oltre la pratica della medicalizzazione del disagio e del sociale. Il teatro scavalca ogni diagnosi, vede la persona e non la patologia».

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